domenica 27 febbraio 2011

Fine delle trasmissioni (ma non di Trish Keenan)

la frangetta più eterea
La notizia della morte di Trish Keenan, voce e metà dei Broadcast insieme al marito James Cargill, avvenuta lo scorso gennaio per colpa di una polmonite (a sua volta causata dal virus H1N1, contratto nel corso di un viaggio di famiglia in Australia), e letta sovrappensiero, prima di addormentarmi, su un'innocua rivista di musica spagnola, mi ha lasciato folgorato, stecchito, scosso, come se in realtà avessi letto la notizia della mia morte. Ho amato molto la musica spettrale ma accogliente dei Broadcast,  anzi, in un certo senso non ho mai amato nessun gruppo come loro, la sensazione di non ascoltare delle semplici canzoni ma di trovarmi immerso in un'atmosfera lontana (nel tempo e nello spazio) e surrealista, in cui il mistero dell'inconscio (il loro, il mio) illumina con la sua luce tremolante un collage ininterrotto di spirali di melodie, frammenti di voci, suoni trovati chissà dove e cadaveri squisiti. La notte che ha seguito la scoperta della scomparsa di Trish Keenan è stata allora come attraversare un lungo ed ipnotico tunnel, accompagnato dalla sua voce in cui le parole si rincorrono come cani randagi sulla spiaggia, in cui le sillabe riflettono l'eco lontana di un carillon che gracchia, di una bambina che impara una filastrocca, di un flauto suonato nell'arcadica campagna inglese, un pomeriggio assolato, con l'erba alta e un torrente che scorre poco lontano. Quel tunnel lo conoscevo, perchè ci ero già passato la notte in cui mi ero addormentato ascoltando per la prima volta, con le cuffiette nelle orecchie e la testa sul cuscino, il loro ultimo disco, Broadcast And The Focus Group Investigate Witch Cults Of The Radio Age, e, cullato da quelle epifanie sonore, avevo provato la sensazione eccitante e allo stesso tempo sconvolgente dell'atemporalità, di essere dappertutto e in nessun posto, nella mia infanzia e nel mio futuro, da prima della mia nascita a oltre la mia morte. Avevo intuito per la prima volta, e con torbida chiarezza, che non è vero che il passato si dissolve con il passare del tempo, ma che il passato è sempre adesso, perchè il presente è sempre anche memoria, è fatto di memoria e immaginazione, sogni e ricordi, viaggi nel tempo e nostalgia per vite mai vissute.

Mi è subito tornata alla mente la straordinariamente evocativa intervista che i Broadcast avevano rilasciato alla rivista inglese The Wire in occasione dell'uscita del disco. Sono andato a recuperarla nella mia biblioteca e già la sola immagine di copertina, con la pallida luce che rende inconsistente il profilo gotico di Trish Keenan, l'iridescenza dei riflessi sull'obiettivo, la pannosità biancastra della sua visione, mi ha rivelato la presenza di un fantasma. Mi ha ricordato certe figure fantasmatiche che apparivano nei collage di Max Ernst, in  particolare nella serie Une semaine de bonté, che ho avuto la fortuna di vedere e rivedere un paio di anni fa in una mostra organizzata alla Fundaciòn Mapfre di Madrid. Ernst ritagliava queste figure bizzarre (fantasmi, draghi, serpenti, uccelli, leoni) da vecchi roman noir illustrati del settecento e le incollava, con precisione chirurgica e macabro senso dell'umorismo, in altrettanti feilleuton rosa, trasformando romantici baci nelle alcove damascate in morti visionarie tra inondazioni, incendi e sinistre apparizioni di uomini mitologici dalla testa di animale. Anche le canzoni dei Broadcast (le ultime soprattutto, ma in modo meno sperimentale anche le prime) non sono altro che collage surrealisti, medium tra due (o più) dimensioni, un ponte onirico che collega  il loro inconscio con quello dell'ascoltatore, un radar amatoriale che intercetta e amalgama e distorce i suoni, i rumori, i lamenti, le nenie e le preghiere dell'oscurità. Canzoni che nascono e muoiono con la stessa spontaneità e velocità dei petali dei fiori, di cui accompagnano la caduta fino al contatto con la terra umida, momento in cui già si sono trasformate in qualcos'altro, in un ciclo vitale e mortale che non ha mai fine e, soprattutto, non ha mai senso.

I Broadcast erano un gruppo digitale che suonava analogico, come io sono un ricco imprigionato in un'esistenza da povero, ed entrambi ci siamo salvati grazie all'incessante curiosità che contraddistingue gli spiriti inquieti e gli intellettuali di provincia. Nelle loro canzoni, il mondo esterno non esiste più, perchè tutto è dentro di noi, tutto, se lo sappiamo ascoltare ma anche, alle volte, sollecitare, sgorga dal nostro profondo con la violenza ancestrale delle cose che ci precedono, tutto quello che sono state le persone che hanno abitato il nostro territorio siamo anche noi. E' un'esistenza ruotata di qualche angolo rispetto alla media, in modo da osservare la realtà da una prospettiva obliqua. La stessa placenta in cui mi immagino galleggi Joanna Newsom, l'unica voce che potrebbe mai prendere il testimone di Trish Keenan, auscultando i suoi palpiti dall'al di là. Che poi, l'al di qua dei Broadcast era già un al di là, e il loro ultimo disco era popolato, anzi, infestato di ricordi di persone, luoghi e cose trovate ad Hungerford, il paesino di campagna del Berkshire in cui si erano trasferiti dagli affitti cari di Birmingham, un luogo solo apparentemente idilliaco ed invece al centro di un'atmosfera mitica ed esoterica (i cerchi di pietra neolitici di Avebury, l'antica necropoli di West Kennet Long Barrow e la collina di gesso di Silbury Hill sono ad un inquietante passo da Hungerford), quando non direttamente raccapricciante (è il luogo in cui nel 1987 il disoccupato Michael Ryan trucidò, in un raptus di follia, 16 persone, e dopo si suicidò, ma non prima di aver detto che "era meglio se stamattina restavo a letto"). Trish poneva la sua voce a disposizione di streghe medievali, di morti impiccati che volevano dire un'ultima parola, di bambini che si raccontano segreti, di cori di chiese remote, e James la accompagnava con suoni indecifrabili in costante e scivoloso equilibrio tra la giocosità e l'ipnosi.

L'impressione che dà l'ascolto di quel magma di brani senza capo nè coda è quella inquietante di ascoltare un film, tante cartoline sovrapposte - ma non la loro colonna sonora, quanto frammenti musicali dei film, in cui le melodie si mischiano alle parole degli attori e ai rumori fuori scena. E' come ascoltare un non-film. Non è un caso che anche Trish Keenan, nella lunga intervista con The Wire, confermava questa sensazione sospesa di non essere, suggerendo che lo spostamento da Birmingham a Hungerford aveva galvanizzato la sua infatuazione per "l'idea del mondo in me come opposta a me nel mondo". Difficile trovare un concetto più affascinante, e lei lo spiegava raccontando che negli album precedenti si era sentita come Alice nel paese delle meraviglie, cercando di dare un senso a questo strano mondo, mentre nell'ultimo anno aveva sofferto un piccolo rivolgimento dentro di sè, iniziando a sentire che dentro di lei c'erano molte persone e che doveva lasciarle uscire fuori. In realtà, anche in passato, si era limitata a piegarsi alle forze che popolavano i suoi pensieri, impiegando nelle sue composizioni metodi aleatori come la scrittura automatica e i cut-ups, improvvisazioni e scoperte involontarie, flussi di coscienza e accumuli di scampoli di parole arcane. Fa venire i brividi e allo stesso tempo ammalia sentirle raccontare che
"I had an idea that if I improvised words vocally I would end up with some odd juxtapositions, a kind of lucky bag of words that could feel totally random. But what I found was I couldn't shape the words out of my mouth fast enough. Instead I was left muttering at the edge of language, sounding more like Kurt Schwitters than the odd shop of nouns and verbs I was hoping for".
E' illuminante, e per me confortante, il riferimento al grande pittore svizzero Schwitters, uno di quegli artisti figurativi che -insieme a Per Kirkeby, Robert Rauschenberg, Enrico Baj, Antoni Tàpies, certi protagonisti minori della Bauhaus pittorica, per evidenti motivi di assonanza estetica- amo di più. L'intrigante mistero dell'ignoto, la magia infantile del linguaggio incapace di esprimere concetti che ci limitamo a percepire, la complessità infinita del mondo che esploriamo con i nostri mezzi finiti, possono essere affrontati solo con la tecnica automatica del collage, dell'accostamento involontario e surreale, della combinazione libera tra la logica e l'impulsività, il subconscio e l'intelletto, facendo dell'imperfezione una virtù. I dischi dei Broadcast non sono altro che questo, manipolazioni della realtà e del tempo, scarti di sogni che si rincorrono e si sovrappongono senza senso, fratture improvvise e salti nel tempo, seguendo il montaggio singhiozzante del più strano dei film. Innocenza e ossessione si danno la mano in un viaggio fino al termine della notte, nella scoperta di una psiche che va oltre i confini da kitchen sink drama in cui Trish Keenan era cresciuta, in pieno riflusso da free cinema, negli anni settanta della working class inglese del nord del paese, scenario per antonomasia di scheletri post-industriali, residui di modernità, che gli architetti chiamano significativamente edgelands.    

Se le canzoni dei Broadcast sono dei diari di persone sconosciute trovati sotto un albero, impressioni timide e confuse di emozioni dimenticate, collezioni nostalgiche di vite altrui, il loro ascolto genera una sindrome da falsa memoria, come se la nostra soggettività venisse risucchiata, volontariamente, nel labirinto dei loro viaggi  immaginari nel tempo e nello spazio, puro spirito impalpabile, e poi non sapesse trovare la via d'uscita, scambiando quella (ir)realtà per il proprio passato. Ecco perchè allora il passato è adesso, è dentro il nostro presente, e la nostra memoria raccoglie la memoria del mondo intero, di quello che c'era e che adesso non c'è più. Come Trish Keenan, che è finalmente arrivata nel posto in cui, in realtà, vagava già da tanti anni, e che continuerà ad ossessionarci e cullarci con la sua voce finché non la raggiungeremo

The page turns on me and you
Across that white plain
The land is unchanged

Broadcast, Tears in the typing pool

lunedì 15 novembre 2010

Preferisco il rumore del mar cantabrico #2 (la costa basca)

In un programma dedicato a Mikel Laboa, andato in onda poco dopo la morte del più influente cantautore basco della sua epoca, un anziano straniero raccontava alle telecamere dell'amicizia che lo univa all'artista di San Sebastiàn. Ricordava con emozione il tempo che avevano trascorso insieme nei Paesi Baschi e si lamentava di non essere mai riuscito a convincere Laboa a ricambiargli le visite, pur comprendendo, o meglio, pur intuendo, con un certo fatalismo, che doveva andare in questo modo. Secondo il mio amico Nikolas, che poi è colui che mi ha riportato quest'episodio, a Laboa sarebbe piaciuto molto visitare la terra del suo amico, però ha preferito non doverlo fare. Per non privarsi mai del gusto di potersela immaginare, aggiungo io (perchè è la stessa risposta, e suppongo quindi che alla base ci sia la stessa motivazione, che mi piace dare quando mi chiedono come mai non sia mai stato a Parigi in tutta la mia vita).

La scoperta di Mikel Laboa la devo a un lunghissimo documentario di Julio Medem, intitolato La pelota vasca, preso in prestito qualche anno fa dalla biblioteca di quartiere di Gracia. Si tratta di un ispirato collage di interviste a personaggi baschi o comunque legati, per ragioni politiche o culturali, alla "questione basca", con cui il talentuoso regista di San Sebastiàn (ma ormai madrileño d'adozione) vorrebbe, senza peraltro riuscirci davvero (in fondo alla pellicola si arriva stremati come dopo un viaggio in pullman in cui si è chiacchierato con tutti i passeggeri), aggiungere la sua testimonianza alla comprensione dell'irrisolta e spesso incompresa situazione della sua terra, unendo, ma sarebbe meglio dire facendo scorrere, le immagini con la musica intrisa d'epica di Baga, biga, higa, l'opera ancestrale ed onomatopeica che più di tanti discorsi rende l'idea di una regione che probabilmente non sarà mai una nazione indipendente dal punto di vista politico, ma che è da sempre la Heimat reale, diversa e irripetibile, per tanti uomini che lì sono nati o la Heimat metaforica per quelli che, come me, grazie all'amico di una vita, ci sono semplicemente passati tante volte, a partire da un bizzarro viaggio in macchina con gli amici più cari, continuando con un piovoso e ancora più bizzarro capodanno con Laura e la sorella, per finire con un giro hemingwayano con il padre, trasformando così la casualità in abitudine, il viaggio turistico in percorso personale, la strada in romanzo di formazione, i paesaggi della costa nelle pareti della propria stanza.

L'attaccamento viscerale alla propria terra, la gelosa rivendicazione delle proprie parole, la difesa appassionata delle proprie tradizioni, il senso ampio della famiglia, l'orgoglio ruvido e sincero di appartenere ad un piccolo mondo antico fatto di ricordi, gesti, atmosfere fuori dal tempo, storie, racconti dei nonni e degli zii non sono di certo prerogative del popolo basco, ma in quella lingua di terra che separa Bayona da Bilbao questi elementi acquistano un senso diverso, capace di nascondere anche le imperfezioni, le sbavature, le ingenuità che qualsiasi dichiarazione di unicità porta con sé. Privo di qualsiasi ornamento oleografico o ruffiano auto-compiacimento, la vera epica basca (non quella massimalista e strumentalizzata dei suoi sedicenti portavoci politici) si annida e si percepisce nei racconti dei vecchi pescatori di Ondarroa, negli alberi dipinti del misterioso bosco di Oma, nel ruggito del San Mamès, lo stadio di Bilbao, la Catedràl, quando segna l'Atleti, nello txirimiri che bagna i vestiti, nelle figure plastiche dei quadri di Aurelio Arteta, nelle grida di Mikel Laboa, nelle riproduzioni in legno delle vecchie barche che si possono comprare in un negozio del casco viejo di San Sebastiàn, nei paesaggi post-industriali di Barakaldo. L'epica basca appare in tutto il suo spirito quando si viaggia per le sue strade costiere, quelle segnate in bianco sulla mappa, quando ci si ferma a fare il bagno nelle baie, quando si osservano le scogliere erose dalla corrente incessante del mar cantabrico, quando si passeggia nel sentimento muto di un qualsiasi frontòn di paese, pensando agli anziani a bordo campo con la txapela in testa che scomettono sui pelotari punto dopo punto, trasformando le partite di pelota vasca in scontri di civiltà tra vicini di malghe o di condominio.

L'epica basca è nel silenzio del faro del capo Matxitxako che indica la rotta ai pescherecci che con il loro carico tornano dal mare del nord verso i porti di Bermeo, Ondarroa, Getaria, nel silenzio degli amici taciturni che quando devono farti capire una cosa importante non usano le parole ma ti portano sulla spiaggia ad osservare le onde, nel silenzio delle foto ingiallite di un passato cui afferrarsi con veemenza per non farsi risucchiare nell'anonimato del presente, nel silenzio del marmitako, la zuppa di patate, tonno e pomodori che si preparavano i marinai per riscaldarsi le ossa, che la vecchia madre del mio amico Fernando gli preparava quand'era ragazzo e che, così buono, non l'ha mai più mangiato, nel silenzio delle pause della conversazione telefonica tra Nikolas e la madre fatta ogni tanto in euskera non perchè ce ne sia bisogno, non perchè normalmente non si parlino in castigliano, non per non farsi capire, ma solamente per evitare che anche la lingua della loro terra, così come è successo alla sua storia, rimanga in futuro un mistero al quale si interesseranno solo gli archeologi e i poeti. L'epica basca è anche mia, vissuta nel silenzio di un'autostrada notturna, cercando di indovinare l'uscita per Hondarribia senza finire in Francia, con le gru di Irùn in fosforescente lontananza, mentre un amico dorme e l'altro si ricorda di quella volta sperduti in un'altra costa, in un'altra vita.

L'epica dei Paesi Baschi si intreccia in ogni storia familiare, infrangendo le barriere che fittiziamente separano l'universale e il personale. Ne è testimonianza un libro meraviglioso, Bilbao-New York-Bilbao, scritto in basco e successivamente tradotto in spagnolo (presto, mi auguro, arriverà anche la versione italiana). L'autore e narratore, Kirmen Uribe, nasce poeta ma soprattutto nasce ad Ondarroa, villaggio di pescatori della provincia vizcayna, figlio e nipote di gloriosi pescatori della zona. Ad Ondarroa dovevamo andare una mattina di luglio a fare il bagno, ma sbagliammo strada e ci ritrovammo su un crinale tortuoso che portava oltre Mutriku, in piena montagna. Quando finalmente riscendemmo sulla costa, dopo alcune soste gastro-intestinali, eravamo ormai a Lekeitio, in tempo giusto per morire sulla sabbia, possibilmente all'ombra.  Kirmen ricostruisce la storia della sua famiglia documentandone il processo, ricercando informazioni sulle generazioni che l'hanno preceduto da chiunque gliele le possa dare. Ecco allora la nipote dell'architetto Bastida, colui che aveva commissionato all'amico Aurelio Arteta l'affresco En la romerìa per il salone della propria casa di Ondarroa, quell'affresco conservato al Museo de Bellas Artes di Bilbao che il nonno di Kirmen, appena uscito dallo studio medico dove gli hanno annunciato che gli restano pochi mesi da vivere, vuole andare ad osservare, perchè lui lo frequentava quel salone, e forse in quella romerìa, tra le ragazze di campagna, è raffigurata anche l'amore della sua vita. Ecco allora lo zio Boni, patrono della barca Bizkargi, il cui aiuto al professore Eneko Barrutia per la compilazione del Diccionario de los pescadores vizcaìnos è documentato in un cd, e ascoltando la sua voce Kirmen si rende conto che aveva ragione la sua ragazza Nerea, quando diceva che il cormorano ad Ondarroa lo chiamano "sakillu" (ad Ondarroa, perchè già solo a Bermeo potrebbe essere tutta un'altra storia). Ecco allora l'anziana zia Maritxu, nel suo polveroso appartamento del centro di Bilbao, che insegna a Kirmen il significato del gesto maite-maite, "un gesto che non conoscevo, deve essersi perso nel tempo":

Maritxu ricorda l'ultima volta che vide suo padre. Lui la fissò da lontano e le fece un gesto cone le mani: ne mise una sopra l'altra e l'accarezzò. Maritxu mi ha ripetuto lo stesso gesto, e con la palma di una mano ha accarezzato il dorso dell'altra. "Questo vuol dire maite-maite", mi spiegò mia zia con le sue parole di ottant'anni fa.

All'altro lato della dolcezza dello sguardo di Kirmen Uribe, ma seguendo lo stesso orizzonte increspato della costa basca, c'è la modernità elettrica dei nipoti di Mikel Laboa, anche se in realtà, musicalmente parlando, non c'è nulla in comune. La frontiera si oltrepassa ad Hondarribia, da dove la sensuale voce di Miren Iza (nelle sue dolcissime esse si potrebbe annegare, come fossero onde lunghe che trascinano a riva) è partita, in direzione Madrid, con i suoi Tulsa. La prima uscita dopo San Sebastiàn, sull'autostrada che porta a Bilbao, conduce a Zarautz, che più che altro assomiglia ad un'edizione in miniatura del capoluogo guipuzcoano, con la sua concha in scala uno a cinque e i villini liberty che fanno pensare agli affreschi di Arteta, a pranzi di famiglia, a dei ritmi di vita diversi, più umani ed intensi - tutto il contrario dei Delorean, i cui ritmi sincopati rimandano piuttosto alla scuderia della DFA Records. Superata Lekeitio ed entrati così in Biscaglia, la sosta va fatta a Getxo, il sobborgo pijo della Bilbao bene, dove la meglio gioventù osserva l'oceano e intravede la costa dell'Oregon, la Portland dei Pavement, che quando suonarono per la prima volta in Spagna si fecero accompagnare nel loro tour dagli Inquilino comunista. Oggi quel gruppo mitico, così quinquis de los ochenta, non c'è più, ma i Pavement sono risorti, e se tornassero in Spagna sono certo che si farebbero scortare dai Mcenroe, nelle cui litanie post-rock, narcolettiche quanto basta, a volte sembra che si riannidi il filo dell'epica basca che Mikel Laboa aveva fatto iniziare con la sua straziante Gernika.

Già, Mikel Laboa. La costa basca l'ha inventata lui. Mi scrive Nikolas, sulla prima pagina del libro di Kirmen Uribe che mi ha mandato un mese fa, di averlo visto varie volte passeggiare per il lungomare di San Sebastiàn, davanti alla spiaggia di Ondarreta, a due passi da casa sua. Anche qualche giorno prima di morire, giusto un paio di anni fa. Indossava sempre gli stessi semplici vestiti, come se fosse un'uniforme. La camicia bianca con un golf di lana blu scuro sulle spalle, i pantaloni azzurri come il mare e le scarpe da spiaggia, di tela grezza, bianche. La nuca scoperta, gli occhi brillanti, il sorriso saggio, la fierezza dello sguardo del ragazzo che è stato (Haika Mutil, Mikel). Sullo sfondo il mar cantabrico, il cielo grigio, i pettini del vento, qualche barca, un paesaggio di Aurelio Arteta, tante storie da raccontare a chiunque abbia voglia di fermarsi ad ascoltare, anche solo per un attimo, i frammenti silenziosi dell'epica basca.

sabato 4 settembre 2010

Parlare di arancine a Favignana, con i Saccardi


(Minima moralia)
L'ultima volta che mi ero trovato di fronte ad una conversazione del genere, come un bambino che osserva la magia dell'acquario dall'altra parte del vetro, appoggiandovi il naso e lasciando l'alone, mentre i pesci nuotano contenti della loro futilità, era stato dentro una sgangherata Renault Quattro, il cui color amaranto trascolorava nella ruggine, e viceversa. Mentre risalivamo la calle Bailèn, la Diagonal, la calle Augusta, attraversando i quartieri signorili del nord, per spingerci fino a Vall d'Hebron, dal cui campo di calcio polveroso, incastonato tra una palma moribonda e una nostalgica insegna pubblicitaria della Kas Limòn, si poteva osservare Barcellona per intera, con le ciminiere del cinturione industriale e la Sagrada Familia, una città che sembrava una stanca prostituta stesa sul letto, con la sigaretta in bocca e il mare a farle da cuscino, i quattro argentini stipati insieme a me nella Renault Quattro non interrompevano mai la stessa conversazione portata avanti sin dall'inizio del viaggio. Il tema era solo un dettaglio insignificante, l'importante era il tono appassionato da tertulia in un caffè di inizio novecento, l'inclinazione dolce della voce, la consapevolezza, come in una partita di Trivial Pursuit, di non aver nulla da guadagnare con il riconoscimento finale di "avere ragione", e per questo la "necessità" di  rivestire i propri argomenti della massima serietà possibile, il desiderio di ballare con l'interlocutore, come se le parole fossero le note di un tango di Gardèl, o magari di una ranchera di Chavela Vargas. Ricordo in particolare una infinita discussione sull'Aquarius, un integratore energetico all'epoca da poco immesso sul mercato, che all'osservarli dall'esterno, senza comprendere esattamente la lingua, e con il finestrino leggermente aperto, chiudendo gli occhi per un attimo, ci si poteva immaginare seduti ad un caffè sul rìo de la Plata, in compagnia di Borges, Galeano, Cortàzar e Soriano, il fernando in mano e il vento salato del mare a scompigliare i capelli. Ma in realtà era molto meglio, perchè al diavolo la letteratura, alla fine del viaggio si giocava a pallone, e quegli argentini ti sapevano mettere davanti al portiere con dei tocchi metafisici che dubito quegli scrittori abbiano mai annoverato tra le loro qualità.

Allo stesso modo, seduti intorno al tavolo da pranzo di Laura, in attesa di compiere il rituale dell'ingozzamento di pasta alla norma (diremo alla norma per semplificare, in realtà era una pasta mitopoietica, quasi cinque paste contemporaneamente, un'opera complessissima e dolcissima, l'equivalente gastronomico un disco dei Broadcast), i quattro Saccardi discutevano animatamente di arancine a Palermo. Suggestionati dalle arancine locali incontrate a Favignana, unanimamente riconosciute di notevole livello, e sollecitati dal mio personale ricordo di una gita estiva all'epoca delle scuole medie, quando passammo una settimana in un convento di suore di un paese sperduto tra le montagne palermitane e la modernità e, soprattutto, scoprimmo il bacio caldo di un'arancina alla carne appena sfornata dal bar sulla piazza quando sta per tramontare, i Saccardi si trovarono coinvolti in un'accesa disputa su quale fosse la migliore arancina della loro città. Al di là del contenuto -per me, non conoscendo Palermo, ripieno come un calamaro di indistricabili dubbi che mi porterò dietro fino alla prossima visita a San Giovanni degli Eremiti (è davvero così buona l'arancina del bar Scimone, o è meglio quella del bar Rosanero? Ma il bar Scimone può partecipare a questa competizione pur essendo, in realtà, una pasticceria? E anche il fatto che fa solo poche arancine al giorno, che se vai il pomeriggio già non le trovi, non lo squalifica dal gioco? Non dovrebbe allora poter partecipare, e probabilmente vincere, anche la madre di Marco, che la sua quarantina di arancine all'anno comunque le sforna? E le arancine che i grandi chef palermitani offrono ai catering, valgono? E perchè è così decaduto lo storico bar Alba?)- l'aspetto godurioso era per me sentire parlare i quattro giovani artisti e ritrovare, nell'atmosfera che affumicava i loro discorsi languidamente vuoti, lo spirito di quei viaggi sulla Renault Quattro, delle conversazioni dei quattro argentini, di -che casualità- quattro anni fa, e aggiornare quello che una volta mi disse a Madrid l'amico Fernando: ti immagini cosa deve essere Buenos Aires, una città piena di argentini che parlano tutto il tempo del nulla? Me lo immagino, così come ora posso immaginarmi cosa deve essere Palermo, quando scatta l'ora dell'arancina.

L'Argentina, come la Sicilia, sono posti estremi. Il sud, almeno da un punto di vista letterario, sempre lo è. I Saccardi lo sanno e questo estremismo lo cavalcano, lo deridono, lo rispettano. Da Trapani a Palermo, neanche cento chilometri di distanza, ho contato una decina d'incendi ai due lati dell'autostrada. Il fuoco lambiva i campi, le montagne, le case, ma mi dava come l'impressione che fosse una cosa normale, che la gente non ci facesse troppo caso. Probabilmente, seduti intorno ad un tavolo, sequestrati dal profumo delle melanzane che friggono, erano tutti troppo intenti a parlare di arancine per poter chiamare i Vigili del Fuoco.

Questo estremismo esistenziale, questo gusto macabro per i contrasti, questo culto dello sfogo, ultima risorsa dei disperati, convertito in genere artistico, è finalmente visibile anche a Favignana, luogo altrimenti troppo idilliaco, nella restaurata Tonnara, o, per essere più precisi, negli ex stabilimenti Florio delle Tonnare di Favignana e Formica. Richiamando Le Corbusier, che, dall'alto del Vittoriano, quando gli chiesero quale fosse il  più bel monumento che Roma offriva alla sua vista, rispose senza esitazione, e a ragione, il Gazometro, anche la Tonnara di Favignana è uno degli spettacoli più suggestivi che la Sicilia intera offre. Mi dispiace per la Villa del Casale, per il Teatro di Taormina, per la Cattedrale di Monreale, mi dispiace per Ragusa-Ibla, per l'oasi di Vendicari, per Cefalù, Caltagirone e la Val di Noto tutta, ma un luogo più bello della Tonnara non si è mai visto. Quasi totalmente rimessa a posto (e in quel "quasi" si annida un'ulteriore sfumatura di fascino, imprigionata nelle maioliche sbeccate accatastate in oscuri magazzini ancora in bianco e nero), è un superbo esempio di come l'archeleogia industriale sia in realtà il nostro umanesimo moderno, un passato le cui luci sono state lasciate accese e sono impossibili da spegnere. Abbaglia la maestosità del complesso, adagiato sul mare e protetto dalla montagna, come il leone che dorme nella gabbia, il leone assetato raffigurato all'entrata della fabbrica Florio e sulle latte del tonno, con gli archi delle rimesse delle barche che, illuminati nella notte, appaiono come fauci pronte ad aprirsi sul tonno distratto che passa tra le Egadi, pensando di trovarsi in un acquario.

I Saccardi dormono nella tonnara e dopo pranzo li passiamo a prendere per andare fare un bagno nell'acqua trasparente del Preveto, o per cospargerci di argilla a Cala Azzurra. E' un piacere tardo-estivo e tardo-adolescenziale, oltre che di tardo pomeriggio, sentirli parlare di cose folli, di persone pazze, di città invivibili, di notti estoni. Rinchiusi, senza chiavi, nella dorata prigione del tonno, splendida quanto si vuole ma allo stesso tempo inquietante da morire, con tutti quegli spazi vuoti, il rumore costante delle onde, le vasche della cottura, le ciminiere mute, i ganci del "bosco" appesi alle travi come le gabbie che pendono dalla facciata della cattedrale di Munster, tracce di un passato duro e ingrato come la pelle dei tonnaroti, popolata da personaggi esoterici come il vecchio custode che in tutta la sua vita non è mai uscito dall'isola, il curatore mistico, il responsabile satanista, i musicisti luciferini, i turisti dall'abbronzatura grottesca, se devono scegliere il tema dell'installazione con cui coronare la residenza, non possono che fare la scelta più estrema, la più siciliana. Di tutta la fase della produzione del tonno, dalla mattanza nel corridoio di mare che separa Favignana da Levanzo alla cottura e all'inscatolamento, il loro sguardo intriso di farsa e di tragedia, di arancine e religione, di sicilianitudine al burro, si sofferma sul momento più crudele, quello che chiamano la "camera della morte", che poi è anche lo spartiacque tra la cattura e la cottura, la sala dell'attesa del paradiso (o dell'inferno) dei tonni, l'ultimo residuo che rimane adagiato sul fondo dell'animo della Tonnara.

Nella Camera della morte dei Saccardi c'è la croce di San Pietro, protettore dei pescatori, la croce al contrario che solo apparentemente vuol essere blasfema, ci sono i demoni che tendono le reti in attesa che le anime dei visitatori ci finiscano dentro come tonni ignari, ci sono le vecchie porte originali della Tonnara recuperate in qualche buio deposito, ci sono i leoni che bevono, ci sono i simboli e i santini, i colori e le figure, gli occhi e le scritte, ci sono i jazzisti che suonano musica sperimentale e i visitatori che non capiscono l'arte contemporanea e i Saccardi che ballano con le loro amiche, c'è il simulacro di un tempio, del mare, della mattanza, c'è il divino, c'è la camera e c'è la morte, ci sono i tonni e il sangue e l'epifania di un rito che si perde nei secoli dei secoli, la nostra corrida, c'è l'oro e c'è il legno, c'è la fine di un'estate, l'ennesima estate (e la chiamano estate) e c'è tutto il resto, ma mancano le arancine. Forse perchè non si sono ancora decisi su quali siano le più buone di tutta Palermo, e bisogna parlarne un altro po', fino alla prossima estate almeno.

lunedì 17 maggio 2010

Tornare ad Arèvalo, con Jaime Gil de Biedma

Ad Avila non c'è molto da vedere, nè molto da fare. Il problema non è solo il freddo che non si accontenta dell'inverno e cerca di invadere anche le stagioni che gli sono vicine. E' che oltre le possenti mura medievali, da percorrere lungo tutto il perimetro, ogni tanto fermandosi sui torrioni ad osservare le cicogne che nidificano sulle guglie della cattedrale e a contemplare l'orizzonte limpido fino alle cime innevate della Sierra de Gredos, ci sono giusto i luoghi-souvenir di Santa Teresa -la casa, la scuola, il convento- e i piatti saporiti -pesantissimi- della più genuina cucina castellana. Come molte altre città della Castilla y Leòn, Avila non ha sviluppato un vero nuovo benessere, un gusto moderno, un'offerta contemporanea di ristoranti, musei, teatri, negozi alla moda, ed è rimasta sospesa in un'atmosfera senza età, senza stile, fondamentalmente anodina. Condannata ad essere sempre tappa di passaggio e mai meta di un viaggio, al viandante offre solo vetrine polverose, gente silenziosa, piazze vuote, saracinesche abbassate, anziani che leggono il giornale. Per fortuna c'era il sontuoso Parador in cui passare un'intera serata a leggere poesie nel salone con il camino, senza sentire neanche per un attimo la tentazione di uscire a fare due passi. Immaginandomi tutto ciò, per la domenica mattina avevo già comprato due biglietti del treno per Arèvalo. Facemmo colazione con pane e pomodoro, tortilla, prosciutto e formaggio manchego, innaffiandola con latte, caffè e succo d'arancia, e durante i successivi quaranta minuti scarsi di binari sconnessi rimpiangemmo tanto coraggio culinario.

Quando si presentò all'ultimo esame per diventare diplomatico, a metà degli anni cinquanta, Jaime Gil de Biedma probabilmente già immaginava che non sarebbe mai uscito vincitore dalla Escuela Diplomàtica. L'articolo che era appena apparso a Parigi a firma di Vicente Aleixandre, uno dei poeti protagonisti  -insieme a Alberti, Garcia Lorca, Cernuda- della generazione del '27, non propriamente un intellettuale filo-franchista, in cui si poteva leggere la profezia che Jaime Gil de Biedma sarebbe diventato il miglior poeta in lingua spagnola della seconda metà del ventesimo secolo, non era stato un buon biglietto da visita in un ambiente così legato al Regime. Ironicamente, Gil de Biedma venne bocciato proprio in cultura e composizione spagnola - non male, per chi effettivamente sarebbe diventato il poeta più significativo della sua generazione. Fu così che, giunto all'ultima prova, Gil de Biedma si regalò una boutade degna di Dalì. Quando gli chiesero di esporre in un tema le attrattive di quella città che, come aspirante diplomatico, più incarnava i suoi ideali,  mentre gli altri candidati lodavano il fascino dei boulevard di Parigi, l'eleganza dei  parchi di Londra, la dolcezza delle rovine di Roma o la monumentalità dei palazzi di Vienna, Gil de Biedma compose un'impeccabile descrizione dedicata al paese di Arèvalo, insignificante località della provincia di Avila. Quella località che, avendo letto questa storia sulla sua biografia, più di ogni altra desideravo conoscere da quando avevo messo piede a Madrid.

Gil de Biedma è sempre stato un essere ibrido, costantemente a cavallo di due (o più mondi). Figlio della più chic borghesia urbana di Barcellona, divise la sua vita tra gli agi dell'Exaimple e la grande casa di campagna di Nava de la Asunciòn, dispersa in una brulla landa non distante da Segovia e, appunto, Avila. Soprattutto la sua infanzia, quella succursale della primavera in cui i ricordi si sedimentano per poi essere riportati alla luce, non senza fatica, con i versi della maggiore età (Gil de Biedma, insieme a Gabriel Ferrater, è stato il più lucido esponente di quella corrente chiamata poesia dell'esperienza), aveva avuto come scenario privilegiato, mentre tutt'intorno la Spagna ardeva nella Guerra Civile, il buen retiro castellano di Nava. Tra le tante immagini del passato -la plaza mayor di Segovia, il castello di Coca, i borghi di Turègano e Riofrìo, da raggiungere a cavallo o con la mehari color sabbia-, Arèvalo era una delle più amate. C'erano le vetrine illuminate, i negozi degli antiquari, il castello, la plaza de la Villa, le abbazie e le chiese. Osservando quelle architetture ricche di dettagli mudèjar, per le strade ci si poteva ancora immaginare con facilità la presenza dei fantasmi dei notabili musulmani. Fermandosi in una qualsiasi delle osterie del centro, ci si immergeva in un tripudio gastronomico, con il cochinillo, il cocido, i legumi, i formaggi, le torte, i mantecati. Un luogo magico, irreale, malinconico, l'unico in tutto il mondo che avrebbe potuto capire uno spirito inquieto come il suo. Peccato che l'intelligenza delle autorità accademiche, snob e prive di senso dell'umorismo, non poteva arrivare a tanto.

La prima sensazione fu quella di trovarsi in una delle piazze d'Italia rappresentate da Giorgio De Chirico. Un ampio spiazzo ovale, terroso, silenzioso, vuoto, inquietante, circondato da maestose chiese del trecento in mattoni rossi, San Miguel, El Salvador, San Martìn, le Torri Gemelle. Lo spazio più metafisico in cui sia mai capitato. Mancavano solo i manichini e i Bagni Misteriosi. Quella piazza era l'emblema di un paese che un tempo era stato grande, potente, ricco, che aveva dato la luce a Isabella di Castiglia e alla più bella architettura mudèjar della regione, e che oggi è ridotto all'abbandono, all'oblio, alla desolata condanna di declinarsi sempre al passato. Il centro è disabitato, le chiese sono oniriche, il castello è chiuso con le transenne, sotto i portici degli edifici della piazza ci sono solo vecchie imposte di legno serrate con i lucchetti, sul corso le facciate dei palazzi baronali sono lasciate morire sotto il peso delle rughe, le botteghe antiquarie muoiono con i loro proprietari.   Un'impressione simile può provarsi solo in certi paesi dell'entroterra siciliano, Piazza Armerina, Caltagirone, Gangi, in cui edifici gattopardeschi ridotti a macerie, il cui fasto barocco degli interni può tuttavia intravedersi attraverso qualche finestra rotta, come in quella suggestiva installazione di Manfredi Beninati, o studiando la pomposità degli stemmi sui portali, convivono tranquillamente con il fiore all'occhiello degli abusi edilizi degli  anni settanta, quelle palazzine squallide dall'intonaco verde oliva, i terrazzini sbeccati e le paraoble sul tetto. Mentre con Laura mangiavamo un chuletòn seduti a un tavolo all'aperto di un ristorante della piazza centrale, con le coppie locali che sciamavano dalla Messa verso il vermuth dell'aperitivo, lodando Arèvalo per il sole che Avila ci aveva negato, pensai che quel paese, in realtà, non esisteva davvero, ma era solo lo scenario immaginato nella più famosa poesia di Jaime Gil de Biedma, No volverè a ser joven:

Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender màs tarde
-como todos los jòvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.

Dejar huella querìa
y marcharme entre aplausos
-envejecer, morir, eran tan sòlo
las dimensiones del teatro.

Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el ùnico argumento de la obra.

Passeggiare una domenica mattina per le polverose strade di Arèvalo, sorprendendosi per l'eco della propria voce che rimbalza tra le chiese mute, aiuta a ricordarsi di una piccola verità che è sempre opportuno portarsi dietro, come il resto della notte anteriore nella tasca di un cappotto, e cioè che niente di quello che possiamo fare nella nostra esistenza ci renderà più giovani. Gil de Biedma lo sapeva, e per questo, arrivato alle soglie della maturità, decise che non c'era più nulla che valesse la pena dire, e smise di scrivere. Pensava di voler essere un poeta, ma, invece, quel che in fondo voleva, era essere un poema. In un modo o nell'altro, nella sua avventurosa esperienza di vita, di giorno dirigente della più grande multinazionale del suo paese, quell'esotica Compañía de Tabacos de Filipinas che gli aprì le porte dei bassifondi morali e materiali dell'Oriente e gli occhi sul bigottismo imperante del suo paese, in cui gli uomini preferivano l'allegro e disinibito cameratismo di andare tra loro piutosto che annoiarsi con le frigide donne dell'epoca, e di notte impenitente viveur del demi-monde omosessuale di Barcellona, diviso tra le discese agli inferi in quel Barrìo Chino ieri ghetto di marchette e reietti e oggi tappezzato di lounge-bar minimalisti alla moda, e le risalite al fresco della città alta, nelle notti di alcool, conversazioni e dischi con gli amici della scuola di Barcellona, come l'editore Barral, i fratelli Goytisolo, lo scrittore Marsè, forse ci è riuscito.

Anche io, ad Arèvalo, ho avuto la sensazione di essere dentro una sua poesia, Volver. Non a caso, l'oggetto riportato indietro da una giovanile primavera trascorsa a Barcellona cui sono più legato è un elegante libro beige che raccoglie l'intera produzione poetica di Jaime Gil de Biedma, Las personas del verbo. Com'è facilmente immaginabile, è il regalo d'addio di una persona con cui ho condiviso lunghe passeggiate per le stradine di Gracia, notti piene di stelle accovacciati sull'improvvisato tetto condominiale e immangiabili paelle nella mensa dell'università. I miei ricordi sono ormai immagini di lei, scattate in un'istante: quella espressione tenera e una sfumatura degli occhi, una certa dolcezza nell'inflessione della voce, gli sbadigli furtivi di chi ha dormito male la notte precedente in pullman. Rileggere oggi i versi di quella poesia, con i post-it che mi segnalano che non ero il solo a conoscere certe emozioni, mi consola sul fatto che un giorno, passati gli anni, ritornerà quell'ingenua felicità di vedersi e ricordare che anche io, come Arèvalo, sono cambiato. 

giovedì 4 febbraio 2010

Essere il Sr. Chinarro (a Malaga, o dovunque)

Ci sono dei luoghi che possono definirsi solo come magnetici, perchè arriva un certo momento nella vita in cui la loro forza di attrazione diventa invincibile, e l'insieme dei frammenti che ne hanno contraddistinto la nostra conoscenza lontana si ricompone di colpo in un biglietto del treno ad alta velocità. Malaga è, per me, uno di questi luoghi. In principio fu il gusto del gelato con l'uvetta, etichettato durante l' infanzia come bizzarro e antiquato, a metà strada tra il puffo e la zuppa inglese nell'espositore del bar Piselli; poi fu la canzone di Fred Bongusto, ricordata da mio padre con esotismo (per la meta, che da ragazzo gli sembrava così lontana) e nostalgia (per gli anni passati); infine fu Antonio Luque, che aveva deciso di andarci a vivere. Come se non bastasse, mentre Madrid era sferzata dal vento gelato, mi arrivarono gli ultimi due segnali: un articolo dell'inserto dei viaggi de El Paìs che raccontava dell'elegante "Malaga degli inglesi" e, soprattutto, gli appunti della mia (futura) amica Cristina di un fine settimana riscaldato dal sole, dalla spiaggia e dalle alici alla brace, che iniziava come una coltellata alla schiena, ovvero lo specchio di quei miei giorni inutili e infreddoliti: "uno sale de Madrid con nieve (o lo que sea), un frío de la leche y tan mal cuerpo que cuesta creer que a menos de una hora en avión (insufrible, eso sí) se encuentre una tierra de viento soleado y terrazas amigables repletas de pescaítos, paellas y... gente!".

Chiesi in giro se era vero, se Malaga meritava tante aspettative, e le risposte unanimi dei miei amici furono un implacabile getto d'acqua gelata lanciato sul mio entusiasmo: è una città brutta, moderna, senza encanto, niente a che vedere con gli altri capoluoghi andalusi, Siviglia, Cordoba, Granaba, Cadice, meglio il fascino mùdejar della piccola Ronda allora, o il glamour di Marbella, ma non andare a Malaga. Ovviamente, non ho creduto a nessuno di loro. Non poteva essere un posto così triste. Me lo sentivo. La mia Malaga sapeva di gelato all'uvetta, di dolcezze sussurrate "in quella casa dal patio antico", delle atmosfere del Sr. Chinarro, di spiagge e pescaìtos fritos.  Stanco allora di girarci intorno, mentre facevo calle Zurbano avanti e indietro quattro volte al giorno, e di limitarmi a immaginare, per dirla con le parole di Cristina, "esa franja infinita de chiringuitos y playa, de lanchas de espetos siempre humeantes y paellas recién hechas, de pescaítos y perros reposados que es El Palo", aspettai che arrivasse Pasqua e che arrivasse Laura, e finalmente, con la sahariana, la camicia di lino e il mio miglior spirito colonialista, salii sul treno ad alta velocità (che anche per me l'aereo è più che "insufrible"), in picchiata verso il sud del paese, arso dalla curiosità di scoprire chi aveva ragione, se i miei amici o Fred Bongusto.

In realtà, non c'è neanche bisogno di uscire dalla stazione di Malaga per trovare una risposta. Basta scendere dal treno. L'aria marina che si respira già ad aprile. La luce. L'afa. Il ritmo della vita. I sorrisi. Le insegne. Il resto è una dolce conferma. L'accento del tassista. Gli edifici con l'intonaco rovinato. I negozi di ultramarinos. I nazarenos con il cappuccio nella mano che s'incontrano per il cammino, indaffarati a raggiungere la partenza della processione. La plaza de toros della Malagueta, soffocata dai grattacieli dozzinali. Le case inerpicate sul monte Victoria, protetto dal più alto Gibralfaro, villette semplici ma chic con le buganville in puro stile caprese. La maestosa alcazaba araba. Il profumo dei gelsomini. Il decadente terrazzo della camera dell'albergo a conduzione familiare. I glicini. La voluttà di sedersi ad aspettare il tramonto, con i capelli umidi, la brezza del mare, e tutta la città distesa a vista d'occhio. 

E' che ci sono due tipi di viaggiatori: quelli che viaggiano per turismo, e quelli che viaggiano e basta, e a Malaga, grazie al cielo, il turismo è riserva indiana dei pallidi europei del nord. E allora noi, belli, colti e abbronzati, calzando espadrillas colorate scendevamo a piedi verso il centro, tagliando per le scalette "che sembra di essere a Via Tragara!", inebriati dal profumo dei fiori e guidati da quello dei ceri, e dallo strato di cera che lasciavano sull'asfalto. Come Pollicino, ripercorrevamo la strada dei nazareni con la tunica viola e, dietro un angolo, sbucavamo nel mezzo di una processione, ci acquattavamo ai bordi e aspettavamo il passaggio del grande trono di legno e oro, con il Cristo sofferente o la Vergine misericordiosa, accompagnato dai passi degli uomini col cappuccio, seguito dai sorrisi timidi dei bambini, mentre gli spettatori ammassati con noi davanti al bar al bordo della strada chiacchieravano, ridevano, attendevano la confraternita di Antonio Banderas, sgranocchiavano pipas e bevevano tintos de verano, mischiando sacro e profano con la stessa nonchalance con cui, al bancone dei bar di Malaga, l'anice e il brandy si  mischiano per dare vita alla più divina delle bevande andaluse, il sol y sombra. D'altronde è Pasqua, e -chiedo un prestito al grande Clerici-  non poteva non esserci, nelle nostre giovanili avventure, nella nostra sporting life, la stagione delle processioni.

L'incenso si dissolve mentre il mare si avvicina, e il suo odore si lascia sopraffare dalle alici che abbrustoliscono sulla brace ricavata in una barchetta di legno abbandonata sulla spiaggia. La vecchia struttura decadente dei baños del Carmen, con le sue colonne ormai solo decorative a picco sugli scogli, ci accoglie con una birra sul tavolo di plastica rosso per riposare, dopo aver passeggiato per ore lungo il mare, attraversando i quartieri del Palo e del Pedregalejo, le loro umili casette colorate ad un piano a ridosso del mare "così Italia anni sessanta!", i ristorantini di pesce con i camerieri attempati, i chiringuitos con le sdraio, i cani senza guinzaglio, la gente rilassata, con la camicia nei pantaloni, la pancia e i capelli corti impomatati. Beviamo una manzanilla al Pimpi, la bodega simbolo della città, perdendo i sensi nel cremoso salmorejo, emblema di una qualità della vita senza eguali. Ci fermiamo a comprare pistacchi, uva passa ed enormi olive nella drogheria di un vecchietto senza età, lui e la drogheria, e le olive le pesca una per una in un barattolone di plastica pieno di salamoia, e sono buonissime, carnose, come un bacio dopo una corsa. Stremati, arriviamo alla fine della passeggiata come se fosse finito il mondo: la spiaggia muore davanti a un muro, un bar con i muri scrostati allunga i suoi tavolini fino all'acqua, l'aperitivo si fa a tutte le ore, una barca solca l'orizzonte, la luce del sole si riflette sull'acqua e, sdraiata sulla panchina, da un paio d'ore addormentata, ti guardo di sfuggita da sotto il libro di Ray Loriga, e il tuo collo, per dirla col Sr. Chinarro, è lo specchio delle fate.

Già, il Sr. Chinarro. Ero convinto che Antonio Luque vivesse a Siviglia, dove è nato e dove ha registrato tutti i suoi dischi fino alla recente svolta più pop de El fuego amigo, e invece un paio di mesi prima di perderci per Malaga ho la fortuna di conoscere al Cìrculo de Bellas Artes, glorioso edificio sulla Gran Vìa madrileña, durante un concerto di Darren Hayman, il mitico Jesùs Llorente, con il suo inconfondibile aspetto (più da nerd che da hipster) barba-occhiali-camicia a scacchi. Llorente ha per me le stigmate del santo e la fede del missionario, perchè fu lui, nel 1993, ad innamorarsi così tanto del Sr. Chinarro che decise di fondare una minuscola etichetta, Acuarela, solo per pubblicare i suoi primi oscuri, criptici, meravigliosi lavori. Oggi Acuarela è una realtà musicale affermata e Sr. Chinarro ha cambiato rifugio discografico, ma Jesùs e Antonio continuano ad essere amici, e quando mi avvicino al primo per chiedergli del secondo, mi racconta che l'ha chiamato nel pomeriggio per dirgli che il suo nuovo appartamento a Malaga, a due passi dal mare, è così piccolo che quando i vicini tagliano le cipolle a lui viene da piangere.

La nuova etichetta del Sr. Chinarro, Mushroom pillow, ha da poco ripubblicato tutti i suoi vecchi dischi, quelli che Antonio Luque non vuole più cantare, perchè, come spiega durante il bellissimo programma Mapa sonoro (quando in Italia qualcosa del genere?), mentre si fa tagliare i capelli nella peluquerìa Pepe (nella Malaga più pura),  "quando un regista fa un film al cinema si va a vedere solo quello, e non un collage con i suoi film più vecchi, e mi piacerebbe che fosse così anche ai miei concerti, vorrei suonare solo il disco nuovo". Comprarli, ascoltarli e leggerne i testi non è quindi solo un piacere, ma un vero e proprio imperativo morale. E' che il Sr. Chinarro non si ascolta, o almeno non solo quello, perchè il Sr. Chinarro si è, a Malaga, a Roma o dovunque, perchè altro non è che uno stile di vita. Sbaglia anche un famoso giornalista e scrittore, normalmente illuminato, che non poco peso ha avuto nella mia formazione letteraria, quando mi scrive "ridimensioniamo la cosa: Sr. Chinarro mi piaciucchia, ma non lo ritengo come fai tu il nuovo Bach-Beethoveen-Wagner-Puccini". Il punto non è quello; il punto è l'ineluttabile naturalezza di perdersi nelle sue frasi misteriose, ellittiche, apparentemente slegate, velatamente ironiche, aspre, poetiche, fantasiose, ridondanti di rimandi popolari e costumbristi, parole  magiche che acquistano nuovi significati, legate dal disincanto dei ricordi e dello scorrere quotidiano.

D'altronde, Luque lavorava in una fabbrica di merendine, era un quadro, con la sua espressione imbronciata, i suoi modi goffi, ed era insopportabile accettare di vivere una seconda vita da artista nel cono d'ombra della realtà, o viceversa, con gli impiegati da rimproverare che lo riconoscono e si confessano fan. Arrivano così i dischi duri, difficili e solitari dei primi anni duemila, La primera obra envasada al vacìo, El ventrilocuo de sì mismoCobre cuanto antes, che spiazzano e deludono la critica dopo i piccoli grandi successi degli album precedenti (El por què de mis peinados e Nosèquè noseècuàntos), perchè Luque rinuncia ai colori dell'acordeòn, delle tastiere, delle melodie dell'amico Belmonte e dei cori femminili, per tornare a fare tutto da solo, riempiendo le melodie scabre di chitarre petrose, nude, essenziali, che si rincorrono e si disperdono come il fumo dei ceri in movimento, come l'odore dell'incenso nelle navate della Manquita, la Cattedrale di Malaga, come cavalli sotto la pioggia, e adornandole con la sua prosa inafferrabile. Sono quelli i dischi da cui partire, perchè sono i più sinceri. Si disintegra il concetto di canzone (così come nel suo recentissimo esordio letterario, con i due racconti di Socorrismo, Antonio Luque ha ha fato lo stesso con le regole della narrativa), sono solo frasi che si susseguono senza una logica, brani che si susseguono senza un ritornello, dischi che si susseguono senza un singolo radiofonico.

E' un percorso interiore che conosce l'ironia ("las misses no sabràn que responder/Es Prusia un territorio o un farol de taxis libres?"), l'amore ("en el trampolìn de la piscina, desde el mes de junio abandonado, tu cuello es el espejo de las hadas"), la nostalgia ("no tienes ni idea del viento que soplaba"), l'assurdo ("Los domingos en el campo, la paella que se pasa al lado de otro drama forestal/Yo no hice nada, tengo el coche lleno de latas de Fanta machacadas"), le visioni quotidiane, che abbiano un senso oppure no (vestiti macchiati d'olio, chipirones alla plancha, cani che si perdono nei parchi o nei parcheggi del Burger King, case sepolte dalla vegetazione, finali di canzoni perdute, ananas che cadono sulla spiaggia..) e si trasforma, si sublima in un linguaggio universale da cui, una volta che si riconosce come proprio, non si può più tornare indietro. E allora io sono il Sr. Chinarro, come sono Aki Kaurismaki, come sono Robert Rauschenberg, perchè le loro opere sono il mio modo di affrontare la vita e la mia vita è nelle loro opere, e io questo gliel'ho detto ad Antonio Luque, nel bagno di un club minimalista di Pamplona, dopo un suo concerto, ma chissà se l'avrà capito, mentre si lavava le mani, e mi regalava un foglietto con il testo di una canzone inedita.

Alla fine dei giochi, allora, ha ragione lo scrittore peruviano Sergio Galarza, quando racconta che la sua ragazza lo chiama "el Sr. Tristarro, dice que no hay tío que cante más triste como él", mentre per lui, in realtà, "es más melancólico que otra cosa", perchè Nikolas lo insegna, la malinconia è la felicità di essere tristi, e niente lo è più del Sr. Chinarro, più di Malaga, più di questa vita. Anche Fred Bongusto aveva capito tutto, già dal 1963: "Il mio amore e' nato a Malaga Malaga Malaga/Il mio cuore resta a Malaga Malaga Malaga/In quella casa dal patio antico/quante dolcezze ti ho sussurato/In quella notte di grande fiesta/io ti ho donato il mio cuor tutto l'amor". Io ci ho messo un pò più tempo, ma il risultato è stato lo stesso, perchè appena ho conosciuto Malaga, anche il mio cuore è rimasto lì, e un giorno, quando saprò cosa farmene, andrò a riprendermelo, magari in una canzone del Sr. Chinarro.

domenica 17 gennaio 2010

La morte a Murcia (è molto shoegaze)

(Klaus&Kinski)

Il caso ci mette sempre lo zampino e così è dovuto a una causalità il fatto che ho scoperto l'esistenza di Murcia, capitale dell'omonima comunità autonoma spagnola affacciata sul Mediterraneo. La causalità in questione sono le insegnanti di spagnolo che ho avuto al Cervantes, quasi tutte provenienti da lì, e mitologicamente innamorate della loro città como solo gli emigranti possono esserlo, tanto da infondere a tutti noi studenti la curiosità irrefrenabile di visitare Murcia, dipinta ai nostri occhi nè più nè meno come il Paradiso in terra. Quel tempo coincise con il momento di scegliere la destinazione dell'Erasmus, decisione delicata perchè irripetibile, ed io, da un lato imbevuto dei golosi discorsi delle mie insegnanti e dall'altro per natura sedotto dalle cose che nessuno conosce, non ebbi alcuna esitazione nell'indicare Murcia come meta preferita, e fu solo per la burocratica insistenza del responsabile dell'ufficio che indicai -svogliatamente- come meta di riserva la più nota Barcellona. Ma tanto, mi domandavo, chi altro chiederà mai di andare a Murcia? E così passai l'autunno ad immaginarmi la primavera in una casa decadente di Murcia, tra pati, azulejos, decorazioni mùdejar e giardini interni, le palme seccate dal sole torrido, la sabbia alzata dallo scirocco africano, il pesce venduto a due lire al mercato, le interminabili passeggiate sul lungomare, i pigri pomeriggi in spiaggia, insomma, la mia personalissima Morte a Venezia, finchè mi arrivò la risposta dell'università: avevo vinto -tra l'invidia generale- di andare a Barcellona. La cosa mi sembrava impossibile, inspiegabile e deludente, frutto di un errore, ed invece era la realtà: i miei buoni voti mi avevano spinto verso la Catalogna, la meta più ambita, frustrando i miei sogni di gloria bohemien e pauperisti sulla Manga menor, dove -chissà- sarebbe approdato qualcun altro. Inutile dire che a Barcellona mi sono divertito da morire, e che mentre ero lì ho pure scoperto che Murcia è tutt'altro che un luogo ameno: paesone agricolo senza storia, senza pati andalusi, e addirittura senza mare! Altro che equivoco, mi dicevo passeggiando per le vie di Gracia, si è trattato di un vero e proprio pericolo scampato. E perciò, anche per vendetta verso le menzogne delle mie vecchie insegnanti, pur avendo girato la Spagna in lungo e in largo, a Murcia non ho mai messo piede, nè mi è rimasto alcun residuo di curiosità.

Neanche ora che ho scoperto che Murcia è la patria del miglior gruppo shoegaze iberico, i formidabili Klaus&Kinski. Neanche per andare a visitare i luoghi da Spagna profonda in cui si snoda il video di Nunca estàs a la altura, la miglior canzone del loro disco d'esordio (Tù hoguera està ardiendo), perchè un anonimo commentatore segnala su youtube che in realtà si tratta di Elche, cittadina di mare della limitrofa provincia di Alicante, e insomma, se anche loro decidono di non ambientare a Murcia il loro video, perchè dovrei sprecarci io un fine settimana? Eppure i Klaus&Kinski sono fantastici, impossibili da togliere dalla testa, oltre che la riprova che è meglio avere sottoculture tagliate con l'accetta (da loro) che non averne affatto (da noi), meglio avere hipster jamòn y queso piuttosto che bori col piumino o radical chic formato bonsai. Impastato della malinconia dei My Bloody Valentine, delle tonalità degli Yo La Tengo e della dolcezza dei Camera Obscura, macchiato di bolero e chitarre acustiche,  il pop eterogeneo del gruppo murciano -elettrico più che elettronico- ritrova omogeneità nella voce della sua cantante, che appare impassibile nella sua ironia disincantata (a partire dall'iniziale El Cristo del perdòn)  eppure, sotto il caschetto, lo sguardo immobile e il vestitino vintage, trema di romanticismo, timidezza e paura (e lo fa emozionando in Lo que no cura mata).


Se immaginarmi una scena shoegaze murciana mi richiede molta fantasia (ma sempre meno di quella che mi serve per immaginarmela a Roma..), è ancora maggiore lo sforzo di pensare Thomas Mann in Extremadura, quando ascolto la loro implacabile Muerte en Plasencia, forse l'unica canzone che musicalmente li avvicina all'etichetta Elefant, la Mecca del pop naif spagnolo, che li distribuisce (a pubblicarli invece è Jabalina). Sarà perchè con Laura ci siamo stati a Plasencia, arrivandoci dal ponte sul fiume Jerte, avendo così di fronte lo stesso sfondo che il grande Joaquìn Sorolla utilizzò quasi un secolo fa per dipingere il mercato dei maiali della città, una delle grandi risorse extremeñe (da lì, tutt'ora, proviene forse il miglior jamòn de bellota del paese), e non ci è sembrato un luogo altamente spirituale. Il maestoso complesso che oggi ospita il lussuoso parador, un pugno di palazzi baronali, chiese e conventi, lo sghembo porticato della tipica plaza mayor, più che spiccare quali vestigia di un passato glorioso, cattolico e signorile, sembrano risucchiate dal contesto moderno, anonimo e povero, e più che ad interrogarsi sul senso della vita e della morte, i negozi di salumi, olio e formaggi spingono all'edonismo più sfrenato, almeno quello gastronomico.


Eppure, risalendo la valle del Jerte da Plasencia verso ovest, verso la Castilla, l'esistenzialismo dei Klaus&Kinski torna subito in mente. Ne racconta sinceramente l'atmosfera rurale un bell'articolo dell'inserto di viaggi che esce il venerdì  con el Paìs, el Viajero, che, letto un giorno davanti a una berenjena rellena nella mia seconda casa di Madrid (l'eterno Guitarrista comunista, il ristorante più castizo della città), mi spinse ad affittarmi la macchina e a fare duecento chilometri verso est, per vedere dal vivo l'effetto che fa l'autunno in Extremadura, regione abbandonata al confine con il Portogallo. E così dormimmo nel castello che ospita il parador di Jarandilla de la Vera, leggendo il giornale negli stessi saloni in cui Carlo V si era fermato a riposare; percorremmo la carretera che unisce come puntini in un gioco enigmistico tutti i paesini dimenticati della valle, con i peperoncini appesi ai balconi appoggiati su pericolanti colonne di legno, le pareti ricoperte dall'eternit e le botteghe ricolme di conserve di pomodori, marmellate, mieli, formaggi, castagne, morcillas patateras e pimentòn; attraversammo piccole cascate (le chiamano gargantas, le gole), tappeti di foglie bagnate, distese di ciliegi (che in primavera colorano di bianco le colline, e da lontano sembra che abbia appena nevicato); visitammo il cimitero tedesco di Cuacos de Yuste, nascosto in un angolo di mondo tra i tornanti, dove sono sepolti i soldati tedeschi delle due guerre mondiali che morirono sulle coste e sulle terre spagnole a causa del naufragio delle loro navi o dell'abbattimento dei loro aerei, tutti ricordati senza distinzione con un'asutera croce di granito scuro; e come in un climax spirituale, infine contemplammo la serena perfezione della vista che si domina dal monastero di Yuste, dove Carlo V decise di ritirarsi negli ultimi anni della sua vita e, soprattutto, di morire. Se non è questa una morte a Plasencia, poco (cammino) ci manca.

Che poi, mi ha sempre colpito l'interpretazione che de La morte a Venezia (o a Plasencia, è uguale) ne ha dato Alejandro Rossi in un capitolo del suo Manual del distraìdo. Scrive il filosofo messicano che quando Gustav  von Aschenbach, sprofondato -dopo aver cenato- nella sua poltrona in terrazza, osserva l'orribile, sfacciato, grottesco spettacolo offerto dai musicisti di strada entrati inaspettatamente nell'albergo, decide di non alzarsi, di non andarsene, perchè in loro vede annunciarsi un universo disordinato e ambiguo. Li contempla, e si rende conto che Venezia, meravigliosa e putrefatta, sono in realtà quegli attori mendicanti, quegli arlecchini, che a loro volta rappresentano il "desiderio", l'altra riva, la realtà negata (e cioè, il suo amore per il giovane Tadzio). Secondo Rossi, quando Aschenbach domanda al musicista se Venezia è ormai appestata, ciò che vuole sapere è se loro -simbolo del suo desiderio- sono malati: està preguntando si para satisfacerse es necesario aceptar la destrucciòn, maquillarse la cara, convertirse en uno de ellos. La risposta è ambigua, però Aschenbach ne coglie il senso e quando decide, come in sogno, di entrare in quella zona si tinge i capelli e si colora il volto, trasformandosi così in un personaggio di fantasia. A niente gli importa osservare come alla fine, dopo la catartica risata con gli ospiti dell'albergo,  i musicisti si tolgono la maschera e "smascherano" la farsa, la commedia che avevano impersonificato, perchè Aschenbach finalmente riceve lo sguardo di Tadzio e rimane da solo nella terrazza, e questa è l'unica cosa che per lui conta.


La morte, o perlomeno la sua immagine, dev'essere un pensiero ricorrente tra gli hispter murciani (così come lo era la Bibbia per gli hipster di Glasgow, secondo Stuart Murdoch), se anche la mitica Lidia Damunt,  concittadina di Klaus&Kinski e personaggio più western della scena indie spagnola, non manca di indossare i suoi panni quando interpreta le sue canzoni screpolate. Oltre a portare la tuba in testa, l'armonica sul collo, la chitarra in mano, la pandereta alla caviglia, l'altresì cantante delle Hello Cuca sfoggia spesso un carnevalesco costume da scheletro, da cui spuntano solo i suoi occhi sperduti e la sua frangetta disordinata, come nel bergmaniano (partita di scacchi inclusa) video di Echo a correr, girato nell'incredibile scenario del deserto che si estende tra Murcia e Almerìa, così polveroso, desolato e costellato di agavi da far riecheggiare le parole del Sr. Chinarro ("no acudieron buitres, pues tambièn habìan muertos"). Probabilmente allora non è un caso che la morte sia sempre collegata ad un sud geografico oltre che metafisico, ed ora che ci penso, se tanti anni fa non sono finito a Murcia, è solo perchè -evidentemente- per me non era ancora il tempo di morire. Il giorno che che mi sentirò pronto, il giorno in cui non potrò più sopportare (per dirlo con le parole visionarie di Alfred Kubin) la lotta che esprimono le forze di attrazione e repulsione, i poli della terra con le loro correnti, l'alternarsi delle stagioni, il giorno e la notte, il bianco e il nero, il cui "vero inferno consiste nel fatto che questo doppio gioco contraddittorio si prolunga in noi", saprò dove andare, affitterò la macchina, metterò il disco di Klaus&Kinski e, senza aria condizionata, punterò verso sud, verso Murcia, e non sarò (il) solo.

martedì 24 novembre 2009

Quando eravamo giovani sognavamo Masha Qrella

  
Quando eravamo giovani l'estate andavamo a Benicassim per il festival. Ci facevamo l'ultimo bagno a San Sebastiàn all'ora in cui la città si risvegliava, passavamo da casa a Pamplona per preparare le borse e le baguette con la tortilla, solcavamo la steppa aragonesa con la Golf blu ascoltando gli Hefner di We love the city, attraversavamo la Spagna e la Spagna attraversava noi, seguivamo il flusso delle altre macchine che a luglio scappavano verso sud, e all'ora di cena arrivavamo a Castellò, dove ci aspettava una casa, per qualcuno un letto, per altri un divano, o il tappeto. La mattina facevamo colazione con il latte e i biscotti, andavamo al mare a Benicassim, dormivamo, nuotavamo, leggevamo, giocavamo con Maria e Candela, aspettavamo le tre per attraversare il lungomare di Benicassim, con i suoi lampioni senza fine, e salire all'appartamento degli zii, sulla Torre. Arantxa cucinava, noi ci sedevamo a tavola, Ignacio mi chiedeva dell'Italia, i cugini si cambiavano il costume, Edoardo raccontava alle ragazze che faceva l'attore, le ragazze leggevano le riviste scandalistiche, poi mangiavamo fino a scoppiare. La cosa bella era che non importava di chi fosse la famiglia, importava sentirsene parte, anche se non ci eravamo mai visti prima, anche se era solo per una manciata di giorni, anche se non ci saremmo mai più rivisti. Dopo pranzo ci mettevamo in veranda, guardavamo la televisione, sfogliavamo i giornali, parlavamo dell'Osasuna, Arantxita rideva e diceva a Edoardo che assomigliava al Colate, il fidanzato di Paulina Rubio, le cuginette riposavano. Poi si facevano le sei, e allora ci cambiavamo, ci mettevamo i jeans e le magliette indie, salutavamo tutti e con la Golf andavamo ad inaugurare il festival.

Quando eravamo giovani compravamo le magliette arancioni di Belle&Sebastian non ufficiali dalla macchina di alcuni ragazzi nel parcheggio del festival di Benicassim. Arrivavamo ai concerti riposati, pasciuti, abbronzati, ridevamo degli inglesi emaciati e palliducci, della loro vita in campeggio, dei loro infradito e dei loro stupidi cappelli di paglia. Bevevamo birra in grandi bicchieri di plastica, seduti davanti ai Maximo Park, ci sbrigavamo per sentire le ultime note del Sr. Chinarro, aspettavamo il tramonto e gli Yo La Tengo (penso alla loro Tom Courtenay e mi vengono i brividi) sul prato davanti al palco centrale, parlando di progetti, di ricordi, del nulla. Mangiavamo quello che capitava, incontravamo amici, sentivamo freddo, ascoltavamo l'ultimo gruppo e poi, quando l'ambiente si faceva ostile, abbandonavamo il recinto, negandoci alle offerte di birre e pasticche dei punk disseminati nel cammino che portava al parcheggio. A casa, ruotavamo il letto, il divano e il tappeto, e Nikolas ci dava una lezione su come si lavano i denti.

Maria e Candela, le sue cugine, dopo aver scavato buche sul bagnasciuga per tutta la mattina, dopo aver mangiato l'ensaladilla rusa, dopo aver fatto la siesta,  prima di lasciarle -noi così grandi, fighi e con i capelli lunghi-, ci chiedevano una spilla in regalo. Una ciascuna. Il giorno dopo gliele portavamo, colorate, e sbagliavamo, perchè erano diverse, e a due bambine di quattro anni bisogna comprare le cose uguali, e allora una delle due ci rimaneva male, e il giorno dopo rimediavamo. Se restavamo a casa Edoardo cucinava la pasta alla carbonara per i cugini che ci avevano ospitato, gli veniva buonissima (come il pollo impanato, e le patate rosolate), però i navarri non erano abituati a mangiare pasta, figuriamoci alla carbonara, e allora dissimulavano a stento il loro gonfiore di stomaco, mentre noi ascoltavamo musica, uscivamo in terrazza, guardavo il mare, guardavamo avanti, lasciavamo che il vento ci scompigliasse i capelli sulla fronte, pensavamo al giorno dopo, ad agosto, agli esami di settembre, alle ragazze che ci aspettavano. Tornavamo al festival a sentire i Cure e i Lemonheads, un po' mi annoiavo perchè non ero lì per quello, le nuvole coprivano le montagne valenciane, ci stringevamo nelle felpe col cappuccio, Nikolas faceva ubriacare Edoardo, passavamo da un palco all'altro, non c'era un vero perchè dietro i nostri gesti, ma solo la consapevolezza di non avere una meta, perchè contava soprattutto quel che vedevamo e sentivamo durante il tragitto. L'importante era ricordarsi di lasciare le scarpe sul terrazzo prima di andare a dormire.

Quando eravamo giovani avevamo lo sguardo d'artista, osservavamo le persone, le montagne, i concerti, gli oggetti, le palme, poi chiudevamo gli occhi, li riaprivamo, e tutte quelle cose non le vedevamo più, ci sembravano diverse da come ce le ricordavamo, le vedevamo con occhi diversi, perchè giravamo intorno alla realtà, o forse la realtà girava intorno a noi, e noi eravamo i suoi registi, i suoi scrittori, i suoi fotografi. Non avevamo nostalgia del passato perchè il futuro cambiava ogni cinque minuti, come i gruppi sul palco, le uscite della carretera, con quei nomi curiosi di paesini di mare, che sapevano di paelle sulla spiaggia, fidanzate spagnole, kas limon, che magari invece erano dei posti squallidi, addolorati e pieni di vecchi, però ci confortava il mite desiderio di non doverlo scoprire mai. Credevamo nella possibilità di un incontro, nell'amore a prima vista, nei viaggi, nel piacere di poter fare qualcosa per primi, di poterlo raccontare, di lasciare la sabbia nella macchina, i costumi ad asciugare nella casa sulla Torre, il telefono in camera, il prosciutto fuori dal frigo, per quando tornavamo all'alba, affamati.


L'ultima sera, sul palco grande suonava Nick Cave. Era la prima volta da non so quanto tempo che si presentava in Spagna. Ormai svanita la commozione dei britannici per la notizia dell'irlandese che nel pomeriggio era stato trovato morto nella sua tenda, per il sole e per le pillole, l'unica cosa che contava per i figli d'Albione era fare il pieno di birre, bocadillos jamòn y queso, e prendere posto per il concerto dell'australiano, l'evento più atteso di tutto il festival. Io però lasciai lì i miei amici e me andai ("a fare un'etruscata, mi diverto di più" direbbe Arbasino), verso il più piccolo dei palchi, quello coperto, sotto il tendone. Pensavano che fossi pazzo a perdermi Nick Cave, ma sotto il tendone c'era la persona che stavo aspettando da quando eravamo saliti in macchina a Pamplona. Davanti a trenta persone (i disertori di Nick Cave, o semplici nordici capitati lì per sbaglio), c'era Masha Qrella che si preparava per il suo concerto. Avevo conosciuto Masha Qrella sulle pagine di The Wire durante l'autunno, quando -nel mio momento preferito della giornata- tornavo a casa dalle lezioni ed erano le sette, mettevo un disco, mi sdraiavo sul letto a sfogliare le riviste di musica e sognavo di andare ai festival estivi. In uno dei dischi che a volte arrivavano con la rivista inglese trovai I want you to know, rimasi fulminato, era una canzone che non smetteva mai di girarmi per la testa, una canzone d'amore e di rimpianti, disadorna e sincopata. Il manifesto della mia gioventù, scritto da qualcun altro. Era il periodo dell'indietronica, della scena tedesca, dei Notwist e dei Lali Puna, ma la musica di Masha Qrella non era così intellettuale, tutt'altro, era una manciata di lettere d'amore scritte con le drum machine, le tastiere colorate, le nuvole di Berlino. La ascoltavo e mi innamoravo della desolata dolcezza di quelle parole ("I want you to know my friend/it's where we started not where we end"), mi incuriosiva la sua storia nei Mina (peraltro un gruppo fantastico) e nei Contriva, mi perdevo nel suo ciuffo sulla fronte, che nelle foto le copriva gli occhi, la bocca, il viso. Masha Qrella si era inventata una carriera solista, al riparo nella sua Villa Qrella, lo studio di registrazione che aveva messo su a Berlino, pubblicando il primo disco (Luck, che conteneva anche la bellissima Hypersomnia) con la piccola Monika-Enterprise, per poi passare (con il seguente Unsolved Remained) alla Morr Music, l'etichetta più figa della mitteleuropa, l'ECM dell'indietronica.


Il sole tramontava su Benicassim ed io mi trovavo nel tendone di fronte a Masha Qrella, dopo che per tutto l'anno il sole era tramontato sulla mia stanza, mentre Unsolved Remained suonava senza pause. Come in sogno, Masha cantava con lo sguardo basso, nascosta dietro il ciuffo e la chitarra, un po' impacciata nel pronunciare certe parole, sorrideva allo sparuto pubblico, lo ringraziava per essere venuto, mentre io avrei voluto ringraziare lei per essere venuta. Dopo un paio di canzoni non ero più solo perchè anche i miei amici mi avevano raggiunto, delusi da Nick Cave, dalla folla oceanica, dal chiacchiericcio che accompagnava la sua voce grave. Neanche a dirlo rimasero sorpresi (incantati?) dal mio piccolo segreto. Restammo in silenzio per tutto il concerto. Quando terminò, mi avvicinai al palco, mi tolsi un peso dalla gola e le parlai. Dissi a Masha Qrella che ero venuto da Roma per vederla. Arrossì, sorrise, liberò la fronte dal ciuffo, mi mostrò una bocca che pur di baciarla Salomè le avrebbe fatto tagliare la testa, mi ringraziò, e mi dedicò il foglietto con la scaletta delle canzoni che aveva suonato, con il pennarello blu. Quel foglietto è ancora attaccato alla parete della mia stanza.


Quando eravamo giovani pensavamo che c'erano momenti che non sarebbero più tornati, ed avevamo ragione. Non siamo mai più tornati a Benicassim, non abbiamo più dormito nel salotto di Mikel a Castellò, non abbiamo più mangiato le polpette di Arantxa, non abbiamo più parlato di calcio con Ignacio, non abbiamo più riempito la Golf di sabbia, non abbiamo più fatto piani per il futuro, non ci siamo più stesi sul prato tra i bicchieri di plastica, non abbiamo più comprato magliette di Belle&Sebastian, non abbiamo più aspettato un anno intero pur di conoscere Masha Qrella. Eppure, non tutto si perde. Per un po' di tempo mi ero dimenticato di Masha Qrella, finchè quest'anno ha pubblicato un disco meraviglioso, Speak Low, nato da un bizzarro progetto commissionatole dalla Haus der Kulturen der Welt berlinese all'interno della rassegna "New York-Berlin", in cui ha interpretato con il suo costernato romanticismo, con la sua docile inquietudine, addirittura delle canzoni di Broadway di Kurt Weill e Frederick Loewe (ascoltare I talk to the trees per credere). Domenica sera Masha Qrella era a Roma e ad ascoltarla c'era ancora meno pubblico di quel pomeriggio a Benicassim. Fichissima, hipster da morire, il ciuffo, la voce, i jeans, la felpa con il cappuccio, gli occhi bassi, per un momento ho pensato che nulla fosse cambiato. Ho ritrovato quella sua aria imbronciata che ogni tanto si apriva in un sorriso, come quando si passeggia sotto un cielo grigio e all'improvviso si viene illuminati e riscaldati da uno squarcio di sole. Quel sorriso che mi ha regalato quando le ho raccontato del foglietto con le sue canzoni che ho ancora in camera, e mi ha detto che si ricordava di tutto, di me, del concerto, di quel luglio, di Benicassim, di Nick Cave - insomma, di quando eravamo giovani.